DSA e Difficoltà di Apprendimento: oltre la legge 170/2010

Con l'entrata in vigore della legge 170 dell'8 ottobre 2010 diventa impossibile ignorare l'esistenza dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA). Uno dei meriti che vengono attribuiti a questa legge è proprio l'aver dichiarato ufficialmente che i DSA esistono. Un grosso limite della legge è rappresentato dal fatto che pare liquidare la questione DSA con l'utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi in ambito scolastico, senza affrontare la delicata questione del trattamento e della gestione quotidiana delle problematiche che tali disturbi portano con sé. Per quanto riguarda i DSA la diagnosi consiste sia nell'esame dei fattori di inclusione e di esclusione per capire se si tratta effettivamente di un disturbo specifico dell'apprendimento, sia nell'esito stesso di tale esame, e quindi indica di quale DSA si tratta (disturbo specifico della lettura, disturbo specifico della componente ortografica e/o grafica della scrittura, disturbo specifico del calcolo). Il processo diagnostico non è affatto semplice e occorre che il clinico sia preparato adeguatamente sull'argomento: si evidenzia da una parte la necessità di una diagnosi nosografica e dall'altra di una diagnosi funzionale, che spieghi il funzionamento del disturbo in quello specifico soggetto. Ne consegue che c'è molta differenza, ad esempio, tra un semplice disturbo specifico della lettura (dislessia) e lo stesso disturbo in comorbidità (cioè in compresenza) con aspetti di disattenzione e iperattività che rimandano a un quadro di ADHD (Disturbo da deficit di attenzione con o senza iperattività). E quand'anche fosse lo stesso tipo di disturbo, la sua manifestazione può variare a seconda del contesto in cui l'alunno si trova o delle sue condizioni psicologiche e caratteristiche personologiche. I disturbi specifici dell'apprendimento hanno carattere evolutivo, cioè la loro manifestazione cambia nel tempo e accompagna il generale sviluppo del bambino. Questo significa che se l'alunno utilizza troppe facilitazioni c'è il rischio di non stimolare abbastanza le sue capacità in crescita, mentre, se non viene aiutato adeguatamente, rischia di impiegare tutte le sue energie per stare al passo con il resto della classe, faticando molto più dei compagni e probabilmente perdendo nel tempo la sua motivazione a studiare (Cornoldi e Zaccaria, 2011). E' importante trovare un giusto equilibrio, esaminando la situazione di ogni singolo alunno e le caratteristiche del suo disturbo. Occorre sottolineare che il disturbo sicuramente si manifesta attraverso difficoltà, ma esistono anche situazioni di difficoltà senza che siano soddisfatti i criteri per definirle disturbo. In sintesi, il disturbo è innato, in quanto caratteristica neurobiologica dell'individuo: non si diventa dislessici (si sta parlando di dislessia evolutiva), lo si è fin dalla nascita, anche se gli effetti si vedono solo con l'ingresso nella scuola. Il disturbo è resistente al trattamento, cioè le prestazioni migliorano con un adeguato intervento, ma non si normalizzano. La resistenza è dovuta alla difficoltà di rendere automatici certi meccanismi, per cui, quando il dislessico legge, è un pò come se leggesse per la prima volta, facendo molta fatica a memorizzare la forma scritta delle parole. In alcuni casi la velocità e la correttezza nella lettura rientrano nella norma, ma l'energia necessaria all'alunno per tale compito lo rende molto faticoso e a volte può compromettere la comprensione. Al contrario, la semplice difficoltà può comparire in momenti diversi della crescita e può essere dovuta a cause diverse.
Inoltre ci sono molti bambini con ritmi di apprendimento diversi rispetto alla classe e che necessitano soltanto di un intervallo di tempo più ampio o di una modalità didattica diversa per apprendere certi concetti. Distinguere tra disturbi e difficoltà diventa perciò fondamentale per impostare il lavoro didattico a scuola, ma anche per seguire i compiti a casa. I trattamenti utilizzano strumenti diversi a seconda dell'età e delle specifiche difficoltà del soggetto e devono integrarsi con gli strumenti compensativi e dispensativi previsti a scuola e nel lavoro a casa. Il trattamento deve essere condiviso dalle famiglie, che devono capire l'importanza (e farla capire è compito del clinico) e collaborare affinché si ottengano i migliori risultati possibili. Questo richiede un enorme sforzo da parte della famiglia, sia dal punto di vista economico, poiché sono rare le realtà in cui tali trattamenti vengono erogati gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, sia dal punto di vista organizzativo, perché gli incontri si inseriscono nella vita pomeridiana spesso frenetica dei bambini, divisi tra impegni di vario genere. La diagnosi di DSA è il punto di partenza, l'inizio di un percorso sicuramente faticoso e impegnativo, ma che può dare grandi soddisfazioni sia ai bambini che alle loro famiglie e ai loro insegnanti. Un bambino con diagnosi di DSA, opportunamente trattato e aiutato, è più libero di esprimere le proprie potenzialità e capacità generali, senza che esse debbano venire penalizzate dalle caratteristiche del suo disturbo.       

La Sindrome di Adattamento all'Abuso

L'abuso sessuale all'infanzia è una delle peggiori espressioni di violenza praticabili, non solo per la violazione fisica in sé, ma anche per l'aspetto di sopraffazione psicologica che contraddistingue la violenza sessuale contro un bambino. L'interazione tra abusante e vittima è infatti, in ogni caso, asimmetrica, in quanto caratterizzata da una predominanza di potere e di competenze dell'adulto, di cui il bambino, per la sua fisiologica immaturità, è ancora privo. Questa relazione è anche, il più delle volte, ambivalente, soprattutto per quanto riguarda i sentimenti e gli stati d'animo della parte più debole, che manifesta una commistione di odio e amore, di aspetti di sottomissione e tentativi di ribellione, in particolare quando l'artefice della violenza è una figura di riferimento, come nei casi di abuso intrafamiliare. La descrizione della Sindrome di Adattamento all'Abuso (SAA) nasce nel 1983 ad opera dello psichiatra americano Roland C. Summit, per cercare di chiarire il motivo per cui, in tanti bambini, il sopruso subito rimanga segreto e perché, in apparenza, non si evidenzino alterazioni particolari. La SAA ci permette di capire quei bambini che reagiscono attraverso modalità che, a una lettura superficiale, possono apparire incongruenti e talvolta contrarie a ciò che, secondo il senso comune, ci si aspetterebbe da un bambino che è stato abusato. Il concetto è dunque uno strumento clinico da utilizzare per comprendere il comportamento di una vittima di abuso e per cercare di spiegare quali elementi della relazione tra bambino e adulto abusante possano determinare ripercussioni a livello comportamentale nella vittima. 
La SAA si articola attraverso cinque categorie che illustrano la variabilità e la complessità della sindrome: 
Segretezza. Se un bambino viene abusato sessualmente da una figura di riferimento, l'abuso è commesso in segreto e il bambino è costretto a condividere con l'abusante quello che spesso viene definito come <il nostro piccolo segreto>.
Sentimento di impotenza. Il bambino è in una posizione tale da non poter opporre un rifiuto a una figura di riferimento o da poter anticipare le conseguenze del coinvolgimento sessuale con un adulto che si prende cura di lui; spesso la vittima sarà acquiescente all'abuso a causa della sua incapacità di porvi fine.
Intrappolamento e adattamento. Il bambino si sente intrappolato nella situazione di abuso a causa delle conseguenze minacciose legate a una eventuale rivelazione.
Rivelazione ritardata, conflittuale e poco convincente. L'importanza della dimensione temporale nella rivelazione dell'abuso è stata ampiamente sottolineata, nel senso che più tempo passa tra l'abuso e la rivelazione, minore può essere la credibilità attribuita alle parole del bambino. Non di rado una rivelazione tardiva è provocata da conflitti familiari; altre volte, quando sono presenti comportamenti antisociali che sfociano in attività criminali o delinquenziali, la rivelazione dell'abuso potrebbe essere considerata come il tentativo di ridurre la propria responsabilità personale di fronte alla legge. In ogni caso, avviene al momento sbagliato e il più delle volte la vittima finisce per essere considerata bugiarda.
Ritrattazione. Talvolta la rivelazione dell'abuso avviene sotto la spinta impulsiva della rabbia, alla quale tuttavia spesso fa seguito l'ambivalenza determinata dal senso di colpa e dal vissuto di responsabilità nei confronti della famiglia e della propria integrità. Nelle conseguenze caotiche della rivelazione, il bambino scopre che le paure e le minacce alla base del segreto sull'abuso sono vere: la famiglia è in tumulto, e ancora una volta il bambino si trova a doversi assumere la responsabilità di scegliere se proteggere o distruggere la famiglia. Se la vittima non trova sostegno in altri familiari, la ritrattazione può essere vista come l'unica opzione per riavere la pace, l'amore ed il sostegno da parte loro. 
La sindrome descritta da Summit non può essere considerata e impiegata come un insieme di fattori indicativi di abuso sessuale. Il punto centrale è il conflitto tra l'esperienza del bambino e l'indifferenza del mondo adulto e la sindrome riflette non la patologia di un bambino che non riesce a convincere l'adulto della propria esperienza, ma quella di una società adulta che non è disposta ad ascoltare ne è disponibile a essere convinta.

Il Gaslighting - una violenza subdola e sottile

Il Gaslighting è inquadrabile in una forma di violenza psicologica e di abuso emozionale di cui la vittima difficilmente acquisisce consapevolezza e che, seppure tenda a manifestarsi nei rapporti di coppia, può svilupparsi anche in ambiti diversi, quali quello familiare, lavorativo oppure amicale e pare non conoscere distinzioni di classe sociale e livello culturale. In sintesi, si tratta di una sottile forma di violenza che può essere definita come un insieme di comportamenti che un manipolatore agisce nei confronti di una persona per confonderla, renderla dipendente, farle perdere la fiducia in se stessa e nel proprio giudizio di realtà fino a farla dubitare della propria sanità mentale. L'obiettivo del gaslighter è quello di privare la vittima dell'autonomia del suo Io, della sua autostima e della sua competenza decisionale, riducendola a una condizione di dipendenza sia fisica che psicologica, esercitando e mantenendo su di essa controllo e potere. Lo stato di soggezione psicologica in cui arriva a trovarsi imprigionata la vittima alimenta a sua volta, in una circolarità perversa, l'esigenza di rinforzare il suo legame con il carnefice, il più delle volte significativamente idealizzato e percepito come potente e sicuro, a fronte della propria vulnerabilità e insicurezza, alimentando così la spirale di dipendenza e ponendo le basi per la prosecuzione del comportamento manipolativo. Sulla psicologia del gaslighting si sono pronunciati anche gli psicoanalisti Calef ed Edward M. Weinshel (1981), inquadrandolo come una variante della relazione sadomasochistica. Nella fase di cronicizzazione della violenza la vittima diventa così dipendente dal suo aguzzino da isolarsi anche a livello sociale; da ciò deriva l'estrema difficoltà che essa riesca da sola a rendersi conto della trappola perversa nella quale è imprigionata e a chiedere aiuto.

IL GASLIGHTING NELLA GIURISPRUDENZA
Il fenomeno non gode di una propria esistenza riconosciuta in ambito giurisprudenziale come fattispecie di reato; riconducendolo nell'ambito delle manifestazioni di violenza all'interno del rapporto di coppia, il gaslighting comprende una serie di condotte qualificabili in termini di abuso psicologico, controllo e isolamento della vittima ed è classificabile come comportamento maltrattante. In linea di massima, il fenomeno può essere dunque ricondotto al dettato degli art. 570 e 572 del Codice Penale, che disciplinano in generale la violenza morale e psicologica relativa ai maltrattamenti in famiglia.

Il disturbo depressivo

La depressione può consistere di un episodio grave (disturbo depressivo maggiore) o può accompagnare la vita dell’individuo in maniera più sottile per la maggior parte del tempo e durare degli anni (disturbo distimico).
La frequenza degli episodi depressivi nelle donne è doppia rispetto agli uomini (ma nei giovani non c’è differenza rispetto al sesso). Sia la depressione maggiore sia la distimia tendono a presentare una familiarità. La depressione non sembra correlarsi all’etnia, all’istruzione, al reddito o allo stato civile.
La depressione può iniziare a qualsiasi età. Un episodio depressivo non trattato in genere dura sei mesi od oltre. Dopo il primo episodio depressivo, molte persone tornano alla normalità e non ci ricadono più. Ciononostante, una proporzione significativa di coloro che hanno avuto un episodio depressivo non ritorna alla normalità. La loro depressione diviene invece cronica, portandoli alla distimia o a episodi depressivi ricorrenti (o anche a entrambi).
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV, American Psychiatric Association, 1994), i sintomi della depressione sono i seguenti. Una persona depressa, probabilmente si ritroverà in molti di questi sintomi (ma non necessariamente in tutti).

  • Umore depresso: significa che per la maggior parte del tempo si sente giù, triste, vuoto, scoraggiato. Potrebbe piangere molto o non riuscire a piangere. Altro sintomo comune è un senso di irritabilità, questo capita specialmente ai bambini e agli adolescenti depressi.
  • Perdita di interessi: una perdita di interesse e piacere nella vita, così che ora l’individuo si deve costringere a svolgere cose che prima gli piacevano.
  • Cambiamenti nell’appetito: il quadro più tipico è la perdita di appetito. A volte, però, le persone mangiano di più quando sono depresse: usano il cibo come una fonte di conforto o come un modo per riempire il vuoto che avvertono.
  • Disturbi del sonno: dorme molto di meno o molto più di prima.
  • Agitazione o rallentamento psicomotorio: il corpo, la mente, il modo di parlare vanno o troppo veloci o troppo lenti. La persona potrebbe essere agitata, non riuscire a trovare pace, oppure rallentata.
  • Perdita di energia: la persona si sente stanca, esaurita, affaticata. Anche piccoli compiti possono apparire esorbitanti.
  • Sentimenti di mancanza di valore o sensi di colpa: l’autostima è bassa.
  • Difficoltà nel pensare: la capacità di pensare, di concentrarsi, di prendere decisioni può diminuire.
  • Ideazione suicidaria: l’individuo si sente disperato. Può avere idee ricorrenti sul fatto che non vale la pena vivere o che sarebbe meglio se fosse morto.

Tra i disturbi mentali che spesso si accompagnano alla depressione ci sono l’abuso di sostanze, i disturbi d’ansia, i disturbi alimentari, i disturbi di personalità e i disturbi da deficit dell’attenzione.
Le ricerche hanno dimostrato che la terapia cognitiva-comportamentale è anche più efficace delle altre terapie, comprese le terapie farmacologiche. La terapia cognitiva-comportamentale è particolarmente efficace a lungo termine, in quanto fornisce ai pazienti delle strategie che possono poi continuare a essere utilizzate anche dopo la fine della terapia. Una terapia esclusivamente farmacologica, invece, presenta un alto rischio di ricadute dal momento in cui si sospende l’assunzione degli psicofarmaci.

Ipocondria: ansia connessa allo stato di salute

La caratteristica principale tipica dell’ipocondria, o ansia connessa allo stato di salute, è la credenza, basata sull’interpretazione erronea di segni o sintomi fisici, di avere o di stare sviluppando una grave patologia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori. Una simile convinzione di malattia non è di intensità tale da diventare un vero e proprio delirio; il paziente può infatti essere consapevole che i propri timori possono essere esagerati e che potrebbe non aver contratto alcuna malattia (DSM-IV, 1994). L’ipocondria può verificarsi in congiunzione con un disturbo da attacchi di panico; la gravità del disturbo tende a fluttuare giornalmente o mensilmente: fasi acute possono essere intercalate da periodi in cui il livello di disagio è contenuto.

Il disturbo ossessivo - compulsivo

Il disturbo ossessivo - compulsivo è un disturbo d'ansia in cui la mente è invasa da pensieri persistenti e incontrollabili, o in cui la persona è spinta irresistibilmente a ripetere di continuo certi atti; ne conseguono un notevole disagio psicologico e una rilevante interferenza con le attività della vita quotidiana. Il disturbo ossessivo - compulsivo affligge dal 2 al 3% della popolazione americana e più frequentemente le donne che non gli uomini (Karno e Golding, 1991). Per quanto riguarda la popolazione italiana non esistono ancora dati certi e generalizzabili.
Di solito insorge agli inizi dell'età adulta, spesso in seguito a qualche evento stressante, come una gravidanza, il parto, un conflitto familiare o difficoltà sul lavoro (Kringlen, 1970). L'esordio precoce è più comune fra gli uomini ed è associato a compulsioni di controllo, ovvero alla ripetizione di gesti e comportamenti che hanno la funzione di tenere costantemente sotto controllo l'ambiente circostante. L'esordio tardivo è più frequente fra le donne e si associa a compulsioni di pulizia, come ad esempio lavarsi frequentemente le mani, fare molte docce durante la giornata o pulire in continuazione le casa. A volte il disturbo è preceduto da un episodio depressivo, altre volte è il disturbo stesso ad essere seguito da depressione (Rachman e Hodgson, 1980). Il disturbo ossessivo - compulsivo può risultare associato ad altri disturbi d'ansia, in particolare a quello di panico e alle fobie, nonché a vari disturbi di personalità.
Le ossessioni sono pensieri, impulsi, o immagini a carattere invasivo e ripetitivo, che si presentano non voluti alla mente e appaiono irrazionali e incontrollabili all'individuo che li subisce. Se è vero che molti di noi possono avere fugaci esperienze di questo genere, per chi è afflitto da un'ossessione esse possono essere di tale intensità e frequenza da interferire pesantemente con il suo normale funzionamento. Clinicamente, le ossessioni più frequenti riguardano le paure di contaminazione che esprimono qualche impulso sessuale o aggressivo, oppure le paure ipocondriache di disfunzioni fisiche (Jenike, Baer e Minichiello, 1986). Le ossessioni possono presentarsi anche come una forma estrema di dubbio, indecisione e procrastinazione.

Il disturbo da agarofobia

L'agorafobia (dal greco agorà, che significa <<piazza del mercato>>) è un insieme di varie paure che hanno principalmente per oggetto i luoghi pubblici e frequentati, dai quali potrebbe essere difficoltoso allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto nel caso in cui l'individuo venga colpito da un attacco di panico. Semplificando molto le cose, si potrebbe riassumere l'agorafobia come la paura di avere un attacco di panico. Sono presenti la paura di andare per negozi a fare compere, la paura di ritrovarsi in mezzo alla folla e quella di viaggiare. Chi soffre di agorafobia prova spesso un forte disagio nell'allontanarsi da casa, e può anche evitare completamente di farlo. In questi casi si parla di disturbo di panico con agorafobia.

Il disturbo d'ansia generalizzata

La persona affetta da disturbo d'ansia generalizzato è preda di un'ansia persistente, spesso concernente piccole cose. Il carattere distintivo di questo disturbo è una preoccupazione cronica, incontrollabile, per qualsiasi genere di circostanza o attività. Il disturbo è così pervasivo da essersi meritato l'appellativo di <<ansia diffusa>>.
Sono inoltre frequenti sintomi somatici come sudorazione, vampate di rossore, batticuore, nausea, diarrea, sensazione di freddo, mani appiccicose, bocca secca, nodo alla gola, respiro poco profondo, pollachiuria (aumento della frequenza delle urine). Tutte queste manifestazioni somatiche riflettono l'iperattività del sistema nervoso autonomo. Anche la frequenza del polso e la respirazione possono essere elevate. A volte vengono lamentati disturbi alla muscolatura scheletrica: tensione e dolenzia muscolare, soprattutto nella zona della nuca e delle spalle; tic alle palpebre e in altre parti del corpo; tremori; facile affaticabilità e incapacità a rilassarsi.
Coloro che soffrono di questo disturbo sussultano facilmente e sono agitati e irrequieti; in genere sono apprensivi e spesso si tormentano immaginando qualche disgrazia incombente, come la morte. Molto comuni sono anche l'impazienza, l'irritabilità, gli scoppi d'ira, l'insonnia e la distraibilità, dovuti allo stato di continua tensione che la persona vive.
La prevalenza del disturbo d'ansia generalizzato nell'arco di vita è abbastanza elevato, dato che lo si riscontra nel 5% circa della popolazione generale (Wittchen et al., 1994). Esordisce tipicamente durante l'adolescenza, benché molte delle persone che ne soffrono riferiscano di averne sempre sofferto (Barlow et al., 1986). Gli eventi di vita stressanti (vedi stress) sembrano avere qualche ruolo nella sua insorgenza (Blazer, Hughes e George, 1987) e la sua frequenza è due volte maggiore fra le donne che fra gli uomini. Inoltre presenta un alto grado di comorbilità con altri disturbi d'ansia o con disturbi dell'umore (Brown, Barlow e Liebowitz, 1994).

Il disturbo da attacco di panico

Nel disturbo di panico vi è un attacco improvviso, e spesso inspiegabile, caratterizzato da un numero elevato di sintomi: dispnea (difficoltà di respiro, senso di affanno), palpitazioni, nausea, dolore al petto,sensazioni di soffocamento e asfissia, nausea,capogiri, sudorazione e tremori, intensa apprensione, terrore e sensazione di disastro incombente. Inoltre la persona può essere assalita e sopraffatta da un senso di depersonalizzazione e di derealizzazione. La depersonalizzazione consiste nel percepirsi come distaccati da se stessi e dal proprio corpo; la derealizzazione è costituita invece da un senso di irrealtà del mondo. Altri sintomi frequenti sono la paura di perdere il controllo, di diventare pazzo o persino di morire.
Gli attacchi di panico possono verificarsi di frequente, per esempio una volta alla settimana o persino più spesso; in genere durano qualche minuto, raramente si protraggono per ore; a volte risultano associati a situazioni specifiche, per esempio guidare l'auto. Quando sono fortemente associati a fattori scatenanti di tipo situazionale, vengono definiti attacchi di panico causati dalla situazione (o provocati dalla situazione); quando tra l'esposizione allo stimolo e l'attacco esiste sì una relazione, ma meno forte rispetto al caso precedente, si parla di attacchi di panico sensibili alla situazione. Molto spesso tra un attacco di panico e l'altro è presente una forte ansia anticipatoria. Infine, gli attacchi possono verificarsi anche in presenza di stati mentali in apparenza benigni, come durante il rilassamento o il sonno, oppure in situazioni in cui paiono essere del tutto ingiustificati; in questi casi si parla di attacchi di panico inaspettati (non provocati).
Il tasso di prevalenza del disturbo di panico nell'arco della vita è del 2% circa negli uomini e di oltre il 5% nelle donne (Kessler et al., 1984). Il disturbo insorge tipicamente nell'adolescenza e la sua comparsa è associata ad esperienze di vita particolarmente stressanti (Pollard, Pollard e Corn, 1989).
Secondo le direttive del DSM IV tale disturbo d'ansia prevede la presenza oppure l'assenza di agorafobia. Il disturbo di panico è molto frequente fra coloro che soffrono già di un altro disturbo d'ansia, per esempio nel caso in cui sia presente il disturbo d'ansia generalizzato o una fobia (Sanderson et al., 1990); molto comune è anche la coesistenza del disturbo di panico e del disturbo depressivo maggiore (Breier et al., 1986).

La comunicazione nella coppia

Il significato della parola comunicazione è molto ampio. "Il mondo, la società, l'intimità stessa delle persone ci si prospettano come una rete sterminata e infinitamente complessa di messaggi, codici, atti linguistici, comunicazioni che si incrociano, si sovrappongono, si determinano" (Volli,1994).
Per quanto riguarda la coppia, i partner comunicano fra loro quando si osservano, ascoltano, toccano, annusano e sulla base di questi atti ognuno ricava delle impressioni e formula dei pensieri sull'altro. La presenza del partner ci consente di conoscerlo: la comunicazione è questo stesso processo di conoscenza, concretizzazione dello stare insieme, del crescere insieme e del sentire comune. 
Migliorare la propria capacità di comunicare serve a:
1. esprimere adeguatamente i propri desideri e bisogni, in modo che l'altro li conosca e li possa esaudire;
2. comprendere ed esaudire i desideri e i bisogni del partner;
3. poter raggiungere compromessi quando le esigenze non collimano;
4. risolvere cooperativamente i problemi personali (dare e ricevere aiuto) e quelli che riguardano la vita di coppia;
5. evitare modalità di comunicazione difettose che porterebbero ad insoddisfazione di uno o entrambi i partner.
E' grazie ad una buona comunicazione che i partner si danno reciprocamente sostegno e che la relazione di coppia si adatta flessibilmente ai cambiamenti e alle circostanze più o meno favorevoli della vita.